Immagina la seguente scena:
Un team riunito in sala. L’aria è un po’ tesa, i visi stanchi. Il progetto è in ritardo, le scadenze si accumulano e il manager apre la riunione con una frase che dice tutto: “Dobbiamo andare più veloci.”
Silenzio. Nessuno parla. Nessuno osa dire che, in realtà, il problema non è la velocità. È che nessuno si sente più davvero ascoltato. Che il flusso di informazioni ha sostituito il dialogo. Che le persone stanno diventando quasi degli ingranaggi. Sì, ingranaggi, parti di un tutto dove non è dato confrontarsi realmente, ma dove prevale il senso di “svolgimento”, attuazione. Compiere la routine in velocità mentre non si dà spazio alle proprie emozioni (che invece, se solo ascoltate, sono utili campanelli indicatori di qualcosa).
E proprio qui si inserisce il coaching. Non come attitudine di moda manageriale, ma come risposta concreta e strutturale a un’esigenza umana e organizzativa sempre più urgente.
Secondo un studio dell’International Coaching Federation (ICF), “le aziende con una forte cultura di coaching riportano un miglioramento del 70% nella performance individuale, un incremento del 50% nella produttività e un aumento del 86% nei livelli di soddisfazione dei collaboratori.” (Studio ICF Global Coaching Study, 2023)
Cosa succede di fatto quando una cultura di coaching entra davvero in circolo?
· La performance smette di essere pressione e diventa progresso: gli obiettivi si chiariscono, il senso di responsabilità si allinea con quello di possibilità.
· L’engagement diventa qualcosa di palpabile: non solo “sono motivato a fare”, ma “sento che qui, posso esprimermi e condividere il mio sentire.”
· L’agilità organizzativa che non è solo una parola da slide in PowerPoint: è un sistema che respira, apprende, si adatta. Dove il feedback è elemento quotidiano che nutre, non evento annuale di verifica.
Il coaching quindi diventa un’abitudine. Un modo di fare le riunioni, di stare nelle conversazioni. Di dare feedback. Di porsi davanti a un errore.
Il coaching ci costringe a fare una domanda radicale: “Che tipo di organizzazione vogliamo essere?”
Un luogo dove si produce? O un contesto dove si cresce, si dialoga, si trasforma?
Vivere il lavoro non solo come una sequenza di obiettivi da raggiungere, ma come uno spazio dove anche noi possiamo diventare versioni più consapevoli, più efficaci e, perché no, più umane di noi stessi.
Il coaching non è solo un metodo: è una forma di presenza. Un modo diverso di abitare il potere, di esercitare la leadership, di stare in relazione.
Immagina allora il coaching come un seme. E il terreno in cui lo pianti… sei proprio tu.
Piantiamo un seme oggi:
Se oggi tu volessi incarnare, anche solo per qualche minuto, una cultura di coaching, cosa potresti fare di diverso nel modo in cui ascolti, poni domande o guardi i tuoi colleghi?